Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 23 ottobre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Diciannovesima Parte)

 

38. Eventi straordinari nell’esperienza clinica di Thomas Willis, allievo di Harvey. Prima di tornare per qualche altra osservazione sulle due vicende esemplari di Galileo e Harvey, desidero soffermarmi su alcune esperienze cliniche dell’allievo del medico inglese di maggior prestigio a Oxford e già menzionato per la scoperta del poligono arterioso alla base del cervello, ossia Thomas Willis, perché dal suo schedario apprendiamo fatti notevolmente significativi e utili per conoscere luci e ombre della medicina inglese di quegli anni.

Nei suoi appunti troviamo questa interessante annotazione: “Mentre parlano, o camminano, o mangiano, anche con la bocca piena di carne, devono cedere al sonno, e sebbene tenuti svegli da altri, rapidamente si addormentano”[1]. Si tratta della prima descrizione medica moderna della narcolessia, disturbo che comporta l’improvviso addormentamento nel corso del giorno, anche durante atti o funzioni che in condizioni fisiologiche contrastano i meccanismi del sonno.

Probabilmente Willis amava parlare di questo suo interesse, perché una sera che aveva deciso di fermarsi a una locanda di campagna per trascorrervi la notte, gli fu chiesto di esaminare due contadini, padre e figlio, “sopraffatti dal sonno più profondo”. Willis accettò di visitarli “non solo per carità, ma anche per curiosità” e, quando entrò nel loro cottage, li trovò sdraiati a letto, così come erano stati visti il giorno precedente. Suppose che non si trattasse di una crisi di sonno e, dopo una breve indagine, scoprì che i due avevano accidentalmente mangiato il velenoso giusquiamo, credendolo una pianta di pastinaca[2]. Allora, all’uso medico del tempo, a ciascuno dei due pazienti introdusse una piuma in gola, attraverso l’istmo delle fauci, per evocare un riflesso che fu sufficiente per farli uscire dallo stato stuporoso causato dall’intossicazione da alcaloidi contenuti nel vegetale. Il giorno dopo, padre e figlio si ripresero spontaneamente, senza nessun tentativo terapeutico, ma a Willis fu attribuito ogni merito per la guarigione.

Gli capitò poi di osservare qualche caso di isteria, che interpretò secondo l’antica concezione di Galeno[3], e di verificare un evento insolito, sempre nel campo dei disturbi che oggi afferiscono alla clinica psichiatrica, debitamente riportato negli appunti del suo schedario: “Una contadina di circa 45 anni di età, a lungo melancolica, il 29 di giugno (1650) ha avuto un attacco di mania, così grave che è stato necessario legarla con catene e corde per costringerla a letto. Al quinto giorno mezza pinta di sangue è stata estratta dalla vena basilica. All’ora di andare a letto ha preso due grani di laudano in un decotto d’orzo con un’infusione di fiori di papavero dissolti in uno sciroppo cardiaco dolcificato. […] Intorno a mezzogiorno lei ha dormito di nuovo. Di sera l’ho visitata. Lei ora urlava selvaggiamente, ora cantava, ora piangeva”[4]. Questo resoconto documenta senz’altro il primo studio clinico di una psicosi maniaco-depressiva o disturbo bipolare, due secoli prima della nascita della psichiatria scientifica; ma quella terapia priva di fondamento sperimentale fu fatale alla paziente, che il giorno dopo morì.

Da giovane medico era stato colpito da zoofobie di suoi pazienti, letteralmente terrificati da gatti o rospi, ma presto si accorse che altri mostravano la stessa irrazionale paura per alcuni tipi di cibo, e rinunciò all’impresa di comprenderne la ragione. Troviamo nelle sue annotazioni la descrizione di vari tipi di sintomatologia neurologica e casi di epilessia. Colpisce il caso di una ragazza che, sotto effetto di crisi, poteva compiere salti impressionanti e agire in modo astruso e minaccioso, secondo manifestazioni all’epoca considerate patognomoniche della possessione demoniaca. Willis, pur avendo scritto che la ragazza era posseduta da uno “spirito del male”, a differenza dei suoi colleghi non prescrisse un esorcismo, ma diede istruzioni perché le si somministrasse un emetico, così che vomitasse; poi le prescrisse un salasso e, per via orale, “antidoti di polvere di pietre preziose, cranio umano e radice di peonia”[5].

La fama di Thomas Willis crebbe enormemente non per l’identificazione di nuove sindromi o per aver trovato terapie per qualcuna delle numerose malattie ancora incurabili, ma a causa degli imprevedibili sviluppi di un tristissimo evento di pubblico dominio: una donna innocente era stata condannata e giustiziata, e per l’autopsia fu incaricato William Petty che mandò a chiamare il suo collega Willis per coadiuvarlo. Quando l’allievo di Harvey giunse e trovò nella sala un uomo che pestava con un piede il petto e il ventre del feretro in terra, in una bara aperta, conosceva la vicenda ormai sulla bocca di tutti.

La giovane donna si chiamava Anne Greene e lavorava al servizio di Sir Thomas Reade, un signorotto di Oxford il cui nipote l’aveva sedotta e abbandonata, lasciandola incinta ma inconsapevole di esserlo. Mesi dopo, mentre girava il malto nel fienile di Reade, Anne fu colta da intensissime doglie e, sconvolta dal dolore, corse per chiedere aiuto presso l’ufficio della fattoria, dove poi espulse un feto morto. In preda al panico, andò sull’attico dove intendeva nascondere il piccolo corpicino, ma fu scoperta, denunciata e accusata di assassinio. I tribunali inglesi erano severissimi con i servi, che ricchi e nobili volevano sottomessi in soggezione, raramente concedendo loro la possibilità di far valere le proprie ragioni. Anne Greene fu condannata all’impiccagione.

Dopo averla lasciata languire in carcere tre settimane, un freddo mattino di pioggia fu fatta salire al patibolo, mentre si cantava un salmo secondo tradizione e, prima di serrarle il cappio al collo, le fu concesso di rivolgersi alla folla che, incurante della pioggia, si accalcava per assistere allo spettacolo dell’uccisione per conto dello stato. Anne proclamò la sua innocenza, spiegando che il prodotto del concepimento era già morto e troppo piccolo per nascere: non lo aveva ucciso lei. E poi, rivolgendosi particolarmente alle persone che avevano cantato il salmo, denunciò la lascivia della casa di Reade, senza accusare direttamente il giovane che l’aveva sedotta.

Fu fatta salire la scaletta a pioli e, dopo aver serrato il nodo scorsoio, fu spinta giù con vigore così che la grossa corda, col colpo di tutto il peso del corpo in caduta, potesse spezzare il dente dell’epistrofeo in modo da non avere ostacoli allo strangolamento. Che le esecuzioni in Inghilterra fossero un rito barbaro è confermato dal racconto dei testimoni: la persona giustiziata era nelle mani della folla, e la povera Anne, appesa per il collo, dovette sopportare che alcuni si aggrappassero a lei, tirandola in basso, per far stringere ancora di più il capestro e ucciderla con la trazione del peso del loro corpo, se non fosse ancora morta. Per spregio, molti le colpivano il seno e, tra questi, un soldato che la percuoteva col calcio dell’archibugio.

Quando Thomas Willis giunse nella stanza adibita a sala settoria, vi trovò una folla di parenti, amici della Greene e semplici curiosi[6] e, appena vide l’uomo che pestava il corpo con un piede, lo scaraventò via con un vigoroso spintone. A questo punto i due medici dovevano eseguire il piano autoptico, ma l’insegnamento che Willis aveva ricevuto da Harvey sulla circolazione del sangue, sulla sincronia del battito e sui rapporti tra cuore e cervello, lo indussero ad un accurato esame per avere la certezza della morte.

La donna era assolutamente immobile con occhi chiusi e perdita del tono muscolare. Provò a scoprire i denti ed ebbe l’impressione che le labbra si retraessero subito dopo; aveva stimolato la bocca perché entrambi, Petty e Willis, avevano avuto l’impressione di aver sentito come un sordo rantolo nella gola, pur non vedendo alcun segno di respiro. Avvertivano alcuni rumori appena percettibili, ponendo l’orecchio all’ascolto dell’interno del corpo, come le flebili e lontane vibrazioni di un oscuro tentare di tossire o sputare, come poi scriverà Petty[7]. Dopo tenaci tentativi, Willis si convinse di aver percepito un flebilissimo polso e ne fece partecipe il collega. Allora, seguendo la tesi di Harvey della circolazione del sangue, Willis provò a pungerla perché secondo quella teoria il sangue nella morte si ferma e, senza la propulsione cardiaca, non sarebbe potuto fuoriuscire a getto.

I due medici si convinsero che Anne Greene stava dando segni di poter tornare in vita. Allora improvvisarono un disperato tentativo di rianimazione. Innanzitutto presero a sfregarle senza interruzione per quindici minuti le palme delle mani e le piante dei piedi, poi passarono della trementina sull’abrasione lacero-contusa procurata dalla corda sul collo, per tentare di evocare una reazione nervosa con uno stimolo che produce intenso bruciore nei vivi e, infine, ricorsero al solletico della piuma in gola, come Willis aveva fatto per i due contadini avvelenati. Avvertirono lievissimi segni di risposta. Allora la portarono a giacere in un letto e incaricarono una donna di starle accanto, accarezzandola delicatamente. Non molto dopo, Anne Greene aprì gli occhi. Per tutti era resuscitata e il miracolo lo aveva compiuto Thomas Willis.

Ma l’allievo di Harvey continuava a studiare la paziente. Nelle ore immediatamente successive al risveglio, si accorsero che lei non capiva le parole e non riusciva a pronunciarne. Oggi sappiamo perché: soffriva di un’afasia globale temporanea dovuta al mancato apporto di ossigeno e glucosio al cervello per l’arresto del flusso ematico. Nonostante continuassero a cavarle sangue e somministrale intrugli a base di rabarbaro e spermaceti, poco per volta la forza vitale della fisiologia dei sistemi dell’organismo o vis sanatrix naturae, come si diceva allora, la fece progressivamente migliorare fino a sera. Il mattino successivo chiese una birra, qualche giorno dopo si era del tutto ristabilita e leggiamo che mangiava con gusto ali di pollo. La notizia della donna ingiustamente impiccata e resuscitata per un miracolo compiuto da due medici, che erano stati evidentemente strumento della volontà divina, si diffuse come mai era accaduto prima per un fatto di cronaca.

Ma l’incubo non era finito: la giustizia mandò ad arrestare nuovamente Anne Greene e dispose la ripetizione dell’esecuzione, questa volta proponendosi di darle morte sicura. Allora Willis e Petty andarono personalmente, con la loro autorità di medici, a perorare la sua causa: spiegarono che non vi era assassinio, perché si era trattato di un miscarriage, ossia un evento naturale di espulsione di un una piccola “lump of flesh” già morta nel suo ventre, e che a quello stadio di maturazione in ogni caso un feto non sarebbe potuto sopravvivere fuori del corpo della madre. Sostennero anche che il ritorno alla vita della donna fosse un chiaro segno del Cielo della sua innocenza. Infine, Willis chiese anche un risarcimento da parte del nipote di Reade, che era causa di tutta la sciagurata vicenda della giovane donna e, per giunta, le aveva fatto perdere il lavoro.

I giudici si persuasero e Anne ebbe salva la vita. Così Willis agli occhi di tutti fu un eroe per la seconda volta. E, ancora, visto che il risarcimento non fu accordato, i due medici trovarono un modo per far guadagnare qualcosa alla rediviva: organizzarono la visita guidata delle sale dove il corpo della giovane doveva essere sezionato, della bara, del tavolo anatomico e del letto dove aveva riaperto gli occhi, facendo pagare un biglietto di ingresso. Quando finalmente Anne Greene poté tornare a casa, portò con sé la bara in cui era stata da morta e la mise in esposizione come un trofeo da mostrare a tutti coloro che andassero a farle visita[8].

A Londra furono stampati degli opuscoli, detti pamphlets[9], per celebrare la fama di questo evento miracoloso, debitamente illustrati e corredati con trentasette poesie scritte per l’occasione dagli amici di Oxford, fra i quali spicca Christopher Wren[10].

I colleghi dello Studio di Oxford erano tutti con Thomas Willis, che non patì certo le ostilità sofferte da Harvey, in un ambiente sicuramente diverso da quello che c’era a Londra prima della guerra civile, ma con ogni probabilità anche per la scelta opportunistica di entrare nella scia di una fama già raggiunta. Si legge che Petty fece di tutto per ottenere profitto dalla popolarità, sfruttandola come una propaganda commerciale, mentre Willis, al contrario, se ne astenne e dunque, sebbene avesse per sé i maggiori attestati di stima, non vide crescere il numero dei pazienti che si rivolgevano a lui. Tuttavia, il caso di Anne Greene fu molto importante per l’allievo di Harvey, soprattutto perché gli lasciò un insegnamento inatteso, il cui valore sarà apprezzato dai neurologi nelle generazioni successive e del quale dico subito.

I due medici erano convinti che le funzioni vitali della paziente fossero del tutto cessate e poi riprese e, quindi, che era realmente morta e poi ritornata in vita. Willis, allora, aveva atteso che si riavesse e fosse in grado di parlare per chiederle della sua esperienza nell’aldilà; voleva sapere se avesse percepito qualcosa di musiche celestiali, visioni paradisiache o sabba infernali. Ma, dopo alcuni tentativi, si accorse con sorpresa che Anne, pur essendo ormai in pieno possesso delle sue facoltà mentali, aveva cancellato i suoi ricordi più recenti.

A quel tempo, la mente era considerata un insieme monolitico e le singole facoltà ritenute solo aspetti prestazionali di un’unica entità: lo spirito. Facendo domande specifiche i due medici si accorsero che Anne non ricordava del tragitto che aveva percorso dalla prigione al luogo dell’esecuzione, del bel discorso che aveva fatto sul patibolo e della propria impiccagione. Sforzandosi di rievocare, per le sollecitazioni di Willis, ricordò di essersi tolta il corpetto, precisando che lo aveva pagato ben cinque scellini, e di averlo consegnato nelle mani di sua madre. Dopo, più nulla. Per i medici del Seicento l’intelligenza e la memoria costituivano un tutt’uno, e dunque non poteva perdersi o indebolirsi una sola delle due facoltà: sapevano che le persone intelligenti avevano anche grande memoria e quelle che diventavano dementi perdevano l’intelletto con la capacità di ricordare.

Willis aveva scoperto la possibilità di una perdita selettiva di quella che oggi chiamiamo memoria episodica in rapporto alla temporalità dell’evento traumatico, senza minimamente perdere lucidità, efficienza, capacità logica e di calcolo. Alla delusione per non aver avuto indizi sull’esperienza post mortem, seguì la soddisfazione per aver imparato che i processi di memoria costituiscono delle strumentalità al servizio dell’intelligenza, che possono alterarsi in modo indipendente.

 

39. L’anglicizzazione dell’Europa avviene dopo l’italianizzazione dell’Inghilterra. Dopo questa incursione nel sapere medico, attraverso le esperienze cliniche di Thomas Willis, ritorno al filo principale della riflessione sul composito spirito del Seicento attraverso alcuni protagonisti del passaggio di testimone dall’Italia all’Inghilterra nell’egemonia culturale europea.

Qualcuno ha paragonato William Harvey a Galileo Galilei, ma a me sembra che, a parte la comune fiducia nel metodo scientifico applicato con rigore e purezza senza commistioni con dogmi e nozioni non verificate, non vi sia molto altro. Le due vicende biografiche, in termini scientifici e umani, sono del tutto differenti; anzi, credo possano essere impiegate, nei loro aspetti emblematici, per rilevare e comprendere i tratti salienti di due contesti profondamente diversi in termini sociali, politici e culturali.

La vicenda di Galileo comincia da un complotto universitario che progressivamente si diffonde finendo con l’interessare tutta la Chiesa, il mondo della scienza e della cultura, con la disputa sui massimi sistemi: come un masso che Ludovico delle Colombe fa rotolare giù da un monte, e poi cresce a dismisura formando quella valanga che travolgerà il sistema copernicano e porterà alla fine l’astronomo alla condanna e all’abiura. La realtà galileiana è dominata da una degenerazione farisaica delle istituzioni religiose e dal loro potere di condizionamento delle coscienze, che reca danno tanto alle ragioni della scienza quanto alle ragioni della fede.

La vicenda di Harvey non conosce ingerenze religiose nel lavoro scientifico ma solo l’ostilità della classe medica inglese che resiste pregiudizialmente al nuovo, rifiutandosi di ragionare sulle evidenze, legandosi a vincoli di tradizione e cercando pretesti di carattere teorico per escludere dalla conoscenza e dalle verifiche una scoperta di capitale importanza. In Inghilterra non c’è l’Inquisizione, e il capo religioso della confessione cristiana anglicana, che si è separata dalla Chiesa di Roma già al tempo di Elisabetta I, è il sovrano stesso, che in questo caso è Carlo I, amico di Harvey.

La vita dello scopritore della circolazione del sangue è segnata dalla guerra civile, che gli porta via il sovrano amico e il lavoro ospedaliero, oltre a lasciargli una ferita cronicizzata. Il clima di Londra dopo la guerra civile è stato paragonato a quello di Parigi dopo la Rivoluzione francese, ma dai documenti si desume tutt’altro contesto: non erano in gioco due visioni del mondo realmente differenti come era accaduto in Francia, due concezioni radicalmente opposte della cultura, con appassionati paladini e romantici martiri delle due fazioni, ma lotte di potere che non riguardavano la scienza e la cultura, e non avrebbero dopo, con Cromwell e la nascita del Commonwealth, cambiato nulla nella sostanza delle professioni. Il primo scontro del monarca col Parlamento si ebbe per ragioni di natura fiscale, e fu seguito da un contrasto con un movimento puritano che richiedeva nomine elettive per gli ecclesiastici sul modello della Chiesa scozzese; poi alcuni giunsero a chiedere una nuova forma di organizzazione sociale in funzione economica[11].

Senza addentrarmi oltre in queste questioni, desidero sottolineare che il crearsi della frattura e dello scontro armato fra fazioni, che aveva funestato la vita privata di Harvey, non aveva avuto diretta influenza sulla sua scoperta; anzi, sarà proprio nell’epoca del nuovo ordine istituito da coloro che avevano condannato a morte Carlo I, che si avrà il riconoscimento della circolazione del sangue da parte della classe medica inglese.

Nel paragrafo “37”[12] ho considerato la tendenza alla conservazione, quale bias, ossia uno di quei meccanismi di propensione automatica e involontaria conservati dall’evoluzione, che fanno parte della base neurofisiologica dell’attività psichica umana; in questo paragrafo mi chiedo se non fosse in gioco uno di quei processi inconsapevoli, considerati primitivi o elementari in un’ottica neuroscientifica, e tradizionalmente descritti come meccanismi di adattamento psichico[13], quando si rifiutava l’evidenza delle prove della rivoluzione della Terra e della circolazione del sangue.

Nella dimensione intrapsichica del singolo potrebbe aver operato, per mantenere l’equilibrio interno ottimale, un processo simile a quello originariamente descritto da Freud col termine di diniego (Verleugnung), ossia un meccanismo di rifiuto che esclude dalla coscienza un fatto, un evento o un aspetto della realtà esterna, contrapposto alla negazione (Verneinung) che riguarda invece pulsioni proprie non accettate dal soggetto. In altri termini, credo sia ragionevole ipotizzare che, accanto al più generale fenomeno di rispetto e conservazione di una nozione tradizionale custodita in un nucleo di intoccabilità interiore[14], in alcuni casi di rifiuto dell’evidenza possa aver operato questo meccanismo psichico.

Diversa per natura, perché coscientemente calcolata, valutata ed elaborata è l’operazione configurata come il tentativo di eliminare ope legis dalla coscienza collettiva la realtà empirica in contrasto con la tradizione, come avvenne nel caso di Galileo Galilei.

Il diniego del singolo e i provvedimenti di rifiuto e censura rivolti alla collettività sono accomunati dalla natura di operazioni di cancellazione, ossia attività distruttive e, in quanto tali, collocate in una dimensione di senso tradizionalmente opposta a quella creativa cui appartiene la bellezza che, nella metonimia elettiva dell’arte, è al centro di un epocale cambiamento di statuto nella dimensione del sapere. Dalla priorità spirituale del suo senso rinascimentale italiano alla priorità materiale della sua leva simbolica, in chiave politica e patrimoniale secondo la concezione dei reali inglesi, si sviluppa una vicenda tanto complessa da decifrare, perché mai esaustivamente analizzata dagli storici, quanto impossibile da ignorare perché intimamente fusa con i maggiori eventi culturali che hanno percorso l’Europa di quegli anni.

L’eterna dicotomia tra il creare la bellezza, e perciò conoscerne l’essenza, e il possedere la bellezza, e usarla esibendola, trova nelle epoche storiche, nelle culture e nella vita dei singoli innumerevoli modi e forme di sintesi e compromessi in una gamma che va dall’attribuzione di valore esclusivo alla creazione, con discredito del possesso, fino all’attualità in cui tutti sembra si sentano un po’ produttori e un po’ possessori di bellezza, compresi coloro che fanno mostra di non avere un’idea chiara circa il valore semantico del vocabolo e i limiti del concetto che esprime.

L’Inghilterra aveva sconfitto la Spagna, la maggiore potenza navale atlantica, conquistando l’egemonia militare in Europa ma, a differenza di tutti i maggiori stati continentali, non era stata colonizzata dalla cultura della bellezza italiana e questo la faceva apparire, in termini di patrimonio artistico, una parente povera. Da oltre un secolo i grandi collezionisti inglesi facevano incetta di opere italiane, cercando di sopperire col possesso privato che conferiva prestigio alla famiglia a un difetto culturale dell’intera nazione. Quando Elisabetta, non ancora ascesa al trono, cominciò a studiare l’italiano, ebbe inizio di fatto un cambiamento dall’alto, che avrebbe influenzato tutto il popolo inglese.

L’italianizzazione dell’Inghilterra non era certo una novità ed era avvenuta per piccoli eventi ed episodi nel corso dei secoli, in perfetta continuità con la sua latinizzazione durante l’Impero Romano; ciò che cambia, soprattutto con Elisabetta I e Carlo I Stuart, è che non si tratta più di mutuare un costume, una legge, uno stile o di imitare una moda, ma di appropriarsi di semi della cultura per farli germogliare nella propria terra. Per cercare di chiarire cosa intendo, propongo un esempio del vecchio modo e uno del nuovo.

Nel XII secolo, quando la monarchia inglese volle espandere la propria influenza commerciale e politica nel Mediterraneo, chiese alla Repubblica Marinara di Genova di concederle di impiegare la croce rossa di San Giorgio nei suoi vessilli per le bandiere e le vele, dichiarando di essere divenuta devota del santo, al fine di ottenere la protezione militare della potente flotta genovese. Genova, infatti, aveva come santo protettore San Giorgio, mentre San Giovanni Battista era il patrono storico della città[15]. Il Doge genovese accettò di fornire protezione militare al naviglio inglese dietro pagamento di un tributo annuale, che sappiamo fu poi regolarmente corrisposto dall’Inghilterra alla Repubblica di Genova a lungo nella storia. Un santo martirizzato sotto Diocleziano e da sempre venerato in Italia fu fatto diventare inglese per opportunità politica.

Un esempio del nuovo modo di agire è quello adottato da Carlo I Stuart, che ospita a corte Orazio Gentileschi che era, come ho detto in precedenza, amico di Caravaggio e padre di Artemisia divenuta anche lei grande pittrice[16]. Orazio vive a Londra presso la famiglia reale tredici anni, durante i quali insegna le procedure delle grandi scuole di pittura italiane, in particolare la veneta e la romana, trasmette i principi del caravaggismo e insegna i modi in cui la cultura cristiana cattolica concepisce la venerazione dei santi, influenzando il protestantesimo anglicano.

Con Elisabetta, l’imparare ad essere come le eccellenze del paese di poeti, di navigatori e di santi diventa un imperativo. Eppure l’Italia è vista come la terra dei complotti, delle congiure, delle continue contese per il potere, della secolare divisione tra Guelfi e Ghibellini, della cinica giustificazione machiavellica degli arbitri del potere, dove tutti sembrano essere in lotta contro tutti e spesso, come quando il sommo poeta è condannato all’esilio, vincono i peggiori. E lo sa l’elisabettiano Shakespeare, che ama l’Italia come pochi e vi ambienta molte sue opere teatrali, e tuttavia nel brogliaccio di teatro per l’Otello caratterizza Iago quale “tipico mascalzone italiano”[17]. E, non meno di Fiorentini e Veneziani, anche i Napoletani avevano orribile fama nelle isole britanniche se nel Seicento gli Inglesi definirono Napoli A Paradise inhabited by devils, un paradiso abitato da diavoli.

Cosa aveva dunque di speciale l’Italia? La bellezza, o come dirà poi George Gordon Lord Byron, the fatal gift of beauty, quel dono fatale che innamora perché, come spiegavano i Greci antichi, è “promessa di felicità”? Ma sono tanti i paesi e i luoghi del mondo che abbondano in esempi stupefacenti di viste, panorami e paesaggi indimenticabili, ricchi di fascino e suggestione. Nel Bel Paese si trovano bellezza naturale e bellezza culturale. Ma non basta questo per fare degli Italiani dei maestri dai quali imparare. E poi, imparare cosa?

Il segreto della bellezza. Ecco cosa sembrava che gli Italiani conoscessero al punto da poterne fare arte, scienza e ragione di vita. E qual è questo segreto? Cogliere l’armonia anche nella più stridente disarmonia, fare ad arte ciò che il caso e la necessità negano negli eventi, sovrapporre un registro estetico ad ogni esperienza e fare della tragedia della vita una gradevole commedia, del pianto di dolore una musica celestiale, del vuoto di un lutto un capolavoro di immagini che colmano la memoria e consolano lo spirito? Forse è questo.

Anche se la rappresentazione può sempre essere imitata e si può imitare la capacità di rappresentare senza possedere l’essenza che l’ha generata. Si può perfino conoscere la forma di un segreto e divulgarla senza averne compreso il senso. Forse molti Italiani facevano soltanto questo. Ma fra loro vi erano stati e vi erano ancora alcuni che il senso lo avevano compreso e fatto proprio al punto da identificarsi nello spirito con quel significato, ottenendone una capacità generativa apparentemente illimitata. E sono questi i grandi maestri del Rinascimento.

Mi chiedo se i maggiori tra gli artisti del secolo seguente non fossero degli straordinari virtuosi della forma, privi della sostanza spirituale di quel segreto che Leonardo, Michelangelo e Raffaello hanno voluto rivelare: realizzare opere per parlare agli uomini, ma agendo sempre per piacere a Dio.

Ma rimaniamo ai fatti della storia, e questi dicono che gli Italiani erano ancora i migliori maestri di tecnica nell’arte. Era così radicato nella cultura inglese il mito della superiorità artistica degli Italiani, che lo portarono in America e, due secoli dopo, Louisa May Alcott da Germantown, cittadina nell’area metropolitana di Filadelfia, in Piccole Donne lo fa rivivere nello stupore ammirato e sconfortato della giovane pittrice che, alla vista dei meravigliosi affreschi del Vaticano, si sente sopraffatta e scoraggiata al punto da rinunciare al suo sogno di diventare una grande artista.

A questo punto, per cercare di comprendere per sommi capi almeno qualcosa del processo di anglicizzazione della cultura europea promosso dagli Inglesi, a loro volta italianizzati, è necessario non rimandare ulteriormente un incontro ravvicinato con la figlia di Enrico VIII ed Anna Bolena, che da cattolica divenne capo della Chiesa Anglicana, senza assumerne il ruolo formale di pertinenza vescovile, ma così realizzando una sintesi culturale tra politica, religione e arte per il governo dell’economia: Elisabetta I Tudor.

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-23 ottobre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Cfr. Thomas Willis, Willis’s Oxford casebook (1650-1652), edited by K. Dewhurst, Sandford Publications, Oxford 1981 (se non altrimenti specificato, frasi ed espressioni tra virgolette circa i casi clinici sono tratte da quest’opera e da me tradotte in italiano); cit. in Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and How It Changed the World, p. 105 (Tr.d.A.), Free Press (Simon & Schuster), New York 2004.

[2] Le piante di giusquiamo erano comuni in Inghilterra nel Seicento: Shakespeare lo menziona come veleno che ha ucciso il padre di Amleto. Anche le piante di pastinaca erano molto diffuse e la loro radice biancastra era un ortaggio che si mangiava fritto o lesso come oggi mangiamo le patate.

[3] In realtà, le sue annotazioni non sono sufficienti per farsi un’idea circa il disturbo che affliggeva queste pazienti da lui definite isteriche.

[4] Thomas Willis, Willis’s Oxford casebook (1650-1652), op cit.; cit. in Carl Zimmer, op. cit. p. 105.

[5] Thomas Willis, op cit.; cit. in Carl Zimmer, op. cit. p. 107.

[6] A Oxford le autopsie erano diventate occasioni sociali e risulta dai documenti che William Petty non si sia mai opposto a questo costume.

[7] Cfr. William Petty, The Petty papers; some unpublished writings of Sir William Petty, edited by H. W. E. P. F. Lansdowne, Constable, London 1927.

[8] Queste notizie furono diffuse attraverso fogli impressi da stampatori su richiesta degli stessi medici e non da un quotidiano, come riporta erroneamente Carl Zimmer (op. cit., p.109). Infatti, il primo quotidiano inglese, il “Daily Courant” diretto da Samuel Buckley, fu fondato solo nel 1702.

[9] Anche a questi ho attinto per il mio racconto; uno di essi è integralmente riprodotto da Carl Zimmer (op. cit., p.82) e riporta tutta la storia in una pagina, sotto il titolo: “A Wonder of Wonders being a faithful Narrative and true Relation of one Anne Greene…” e nella metà inferiore una stampa che illustra Anne pendente dalla forca, il soldato che la colpisce al seno con l’archibugio e un uomo che le tira i piedi; a sinistra, lei a letto (con la donna che l’assiste) e dice attraverso un riquadro che punta alla sua bocca come nei moderni fumetti: “Guarda la Provvidenza di Dio”.

[10] Matematico, stabilì che la lunghezza dell’arco della cicloide è uguale al quadruplo del suo asse, ottenendo il plauso di Blaise Pascal e la cattedra a Oxford. Conosciuto Gian Lorenzo Bernini, divenne architetto e, dopo il grande incendio di Londra del 1666, ricostruì la cattedrale di San Paolo.

[11] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, in Will Durant (a cura di), Storia della Civiltà, Edito-Service Editore, Ginevra per Arnoldo Mondadori, Milano 1963.

[12] Intitolato: Le peculiarità da Galileo ad Harvey di meccanismi mentali collettivi nella dimensione della storia.

[13] Secondo la visione psicodinamica derivata dalla psicoanalisi, gli stessi meccanismi (rimozione, proiezione, spostamento, isolamento dell’affetto, formazione reattiva, sublimazione, negazione, diniego, identificazione, identificazione proiettiva, razionalizzazione, ecc.) quando operano in modo armonico e inapparente, integrandosi con il resto delle funzioni psichiche al di sotto del livello cosciente, sono detti meccanismi di adattamento, quando invece entrano specificamente in funzione secondo un meccanismo-soglia, prendono il nome di meccanismi di difesa.

[14] Ne ho discusso nel paragrafo “36” intitolato: Meccanismi mentali ed effetti dell’osservazione astronomica sulla psicologia del credo religioso.

[15] Il primo protettore cristiano di Genova fu San Siro, vescovo genovese morto nel 381 d.C., entrato nella leggenda per aver “domato” un basilisco – ossia un grosso rettile ritenuto velenoso e descritto come “drago” – che dal fondo di un pozzo minacciava Genova col suo fiato pestilenziale: il santo gli ordinò di entrare in un secchio e, quando emerso, di gettarsi in mare, e l’animale gli obbedì. La creatività di artisti che non avevano mai visto un basilisco li ha trasformati in animali fantastici per lo più dotati di ali da pipistrello e capacità di emanare miasmi o addirittura fiamme dalla fauci. Il basilisco e il “drago” mille anni dopo sono indistinguibili, e le variazioni artistiche sul tema hanno generato il Biscione milanese degli Sforza, il Grifone della città di Genova e il drago di Leonardo da Vinci che combatte con un leone. Interessante e forse non casuale che San Giorgio non molti anni prima aveva sconfitto un drago.

[16] Orazio narrò la vicenda di Artemisia, che impressionò la corte e il popolo, sensibile al rispetto delle figure femminili anche per la tradizione di grandi regine. Orazio lavorava nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma col paesaggista Agostino Tassi, suo amico che fu maestro di Claude Lorrain, ma accadde che Agostino di nascosto aggredì Artemisia, allora quindicenne allieva del padre, e la stuprò. Artemisia ebbe il coraggio di denunciare il Tassi e il padre fu testimone d’accusa al processo che nel 1612 condannò il colpevole.

[17] Nei testi alle stampe la caratterizzazione è mutata in villain Othello’s ancient, ossia un vile campagnolo senza scrupoli, anziano di casa di Otello che gli fa da alfiere, e reso in italiano con canaglia.